La pandemia da SARS-CoV-2 ha ridefinito il concetto di “vivere” all’interno di una comunità. I comportamenti che caratterizzavano gli individui fino agli inizi del 2020 hanno dovuto fare spazio ad atteggiamenti spersonalizzanti, al fine di contribuire a contenere una minaccia invisibile.
E il diritto, in quanto strumento che per eccellenza disciplina la condotta dei consociati, non ha potuto subire una sorte differente. Dalla branca troppo spesso percepita come distante dalle esigenze comuni, come il diritto costituzionale, fino a quello più prossima alla gens, come il diritto civile: ognuna ha dovuto fare i conti con lo spettro dell’emergenza epidemiologica.
Fra le questioni sollevate durante la fase emergenziale, una riguarda l’istituto della rinegoziazione in materia contrattuale, e precisamente se sia possibile, all’interno della matassa della legge, trovare un appiglio normativo che imponga alle parti di un contratto, in particolare di lunga durata, l’obbligo di rinegoziarne le condizioni qualora cause esterne e successive all’accordo, imprevedibili e indipendenti dalla volontà dei contraenti, abbiano alterato l’equilibrio del sinallagma.
Si tratta di un argomento che ha da sempre diviso gli operatori fra chi, levando gli scudi a difesa del principio pacta sunt servanda, esclude che possa individuarsi un simile obbligo all’interno del tessuto normativo (fermi gli articoli 1463 e 1467 del codice civile, gli unici disponibili, a loro avviso), e chi, all’opposto, sulla base dei doveri di buona fede e correttezza che permeano l’ordinamento contrattuale, ne riconoscono la sussistenza.
La pandemia, questo è certo, ha dato un impulso verso la ricerca di un nuovo assetto che consenta di sciogliere i nodi del passato.
La Corte di Cassazione, per esempio, felice dell’orientamento inaugurato nel 2009 in cui, con sentenza n. 20106, definiva il principio di buona fede «come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” imposti dall’art. 2 Cost.» e che «si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge», ha proseguito sulla strada battuta anni prima e, nella relazione telematica n. 56 del 2020, ha riconosciuto che «ogni qualvolta una sopravvenienza rovesci il terreno fattuale e l’assetto giuridico-economico su cui si è eretta la pattuizione negoziale, la parte danneggiata in executivis deve poter avere la possibilità di rinegoziare il contenuto delle prestazioni».
Una presa di posizione forte.
La Suprema Corte, tuttavia, non è stata l’unica istituzione ad aver compiuto un passo in questa direzione.
Con sentenza n. 29683 del 27 agosto 2020, infatti, il Tribunale di Roma ha estrapolato dal dovere di buona fede e correttezza «un obbligo delle parti di contrattare al fine di addivenire ad un nuovo accordo volto a riportare in equilibrio il contratto entro i limiti dell’alea normale del contratto». Il Tribunale si appropria così di una tendenza dottrinale diffusa che sollecita a utilizzare la buona fede in «funzione integrativa cogente nei casi in cui si verifichino dei fattori sopravvenuti ed imprevedibili non presi in considerazione dalle parti al momento della stipulazione del rapporto, che sospingano lo squilibrio negoziale oltre l’alea normale del contratto». Ciò accade, appunto, nei rapporti continuativi, in cui la risoluzione può «non essere opportuna e non rispondente all’interesse della stessa parte che, subendo l’aggravamento della propria posizione contrattuale, è legittimata solo a chiedere la risoluzione del contratto “squilibrato” e non anche la sua conservazione con equa rettifica delle condizioni contrattuali “squilibrate”».
A ogni modo, in un periodo così impregnato di incertezze, il legislatore ha fornito un preliminare contributo: dapprima con la legge n. 69 del 21 maggio 2021, che ha modificato e convertito il decreto legge n. 41 del 21 maggio 2021, introducendo l’art. 6 novies recante la rubrica «Percorso condiviso per la ricontrattazione delle locazioni commerciali», e successivamente con la legge n. 106 del 23 luglio 2021, che ha modificato e convertito il decreto legge 73 del 25 maggio 2021.
Il Parlamento ha voluto «consentire un percorso regolato di condivisione dell’impatto economico derivante dall’emergenza epidemiologica da COVID-19, a tutela delle imprese e delle controparti locatrici».
Nello specifico, «il locatario e il locatore sono chiamati a collaborare tra di loro in buona fede per rideterminare temporaneamente il canone di locazione per un periodo massimo di cinque mesi nel corso del 2021», qualora «il locatario abbia subito una significativa diminuzione del volume d’affari, del fatturato o dei corrispettivi, derivante dalle restrizioni sanitarie, nonché dalla crisi economica di taluni comparti e dalla riduzione dei flussi turistici legati alla crisi pandemica in atto». La clausola generale «significativa diminuzione», che compariva nuda nella versione originaria, è stata dettagliata successivamente .
L’intervento del legislatore è senza dubbio apprezzabile, se non fosse per alleviare le conseguenze funeste sia del virus, sia delle misure di contenimento, ma sussiste una profonda differenza rispetto ai motivi che hanno portato i giudici a riconoscere l’obbligo di rinegoziazione.
Questi ultimi, infatti, pare abbiano ricavato tale obbligo dai principi di buona fede e correttezza, il primo ha preferito non addentrarsi in alcuna attività esegetica, concentrando la misura agli eventi in atto.
Una diversità di vedute non ignorabile, dal momento che l’obbligo di rinegoziazione, nell’ottica del Legislatore, è destinato a estinguersi una volta cessata l’emergenza epidemiologica, laddove la giurisprudenza lo considera, invece, cristallizzato nell’ordinamento giuridico.
Certo è che il panorama giurisprudenziale e normativo è variegato, oltre che capace di differenziare le diverse situazioni.
Con un recente provvedimento, il Tribunale di Latina, con ordinanza del 29 ottobre 2021, ha confermato l’importanza della buona fede e della conoscibilità della componente aleatoria del covid-19 che potrebbe condizionare il contratto, e di come questa svolga un ruolo rilevante che si riverbera sul contratto per la valutazione dell’obbligo di rinegoziazione in capo al locatore.
Questa, infatti, cita testualmente: “Va respinta l’opposizione avverso la domanda di sfratto per morosità proposta dal conduttore, il quale deducendo di aver subito minori incassi a causa della emergenza epidemiologica covid 19, eccepisca l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione e la violazione del principio di buona fede contrattuale per non aver voluto il locatore rinegoziare il canone, qualora il contratto di locazione sia stato concluso nel mese di luglio 2020 e quindi in piena emergenza epidemiologica”.
Dal punto di vista normativo, il legislatore ha incentivato le Proprietà ad avviare una rinegoziazione a favore del conduttore sostenendole con un contributo economico in caso di riduzione del canone.
Quanto sopra è stato previsto dal Decreto Ristori (D.L. n. 137/2020) che ha riconosciuto, in favore dei locatori (persone fisiche e non, titolari di partita Iva e non) che hanno concordato con i conduttori una riduzione per il 2021 del canone di locazione di immobili abitativi, un contributo a fondo perduto.
Da queste brevi osservazioni, che hanno cercato di far trapelare la disomogeneità di posizioni assunte, si comprende come la strada verso il riconoscimento di un vero e proprio obbligo di ricontrattazione non esiste.
Ecco che allora risulta preferibile, per il futuro, l’introduzione di apposite clausole contrattuali specificamente finalizzate alla rinegoziazione a fronte di determinati eventi.

Avv. Marta Cobianchi